Ogni giorno gli spunti di riflessione non mancano. A seguito dell’ennesimo naufragio sulle coste libiche, manco fosse a comando si alzano qua e la le solite voci sul fatto che «abbiamo bisogno dei migranti».
Accostare il nostro fabbisogno di persone con la morte in mare di poveretti che cercano un futuro migliore mi pare ridicolo e oltremodo strumentale: ogni giorno nel mondo muoiono milioni di persone per svariate ragioni (guerre, malattie, fame e sete, ideologie religiose e chi più ne ha più ne metta) e non mi sembra che per nessuno di questi se ne faccia un caso di interesse nazionale.
Tornando a bomba sul tema (tanto la guerra è di moda!), trattare l’impoverimento demografico a compartimenti stagni, tipo «abbiamo bisogno di persone allora importiamo persone», è la cosa più stupida che si possa sentire.
Occorre chiederci perché la gente smette di fare figli.
Non di scopare, capite?
Anzi, sono aumentate anche le violenze sessuali e anche su questo potremmo aprire un dibattito che terminerebbe affermando semplicemente che a pagare, chissà come mai, sono sempre le donne.
Oggi invece sono più interessata ad indagare, nel mio piccolo e con il mio modo di sentire, il perché di una natalità in calo, soprattutto qui da noi.
Non credo che non fare figli sia solo per una mera questione economica, visto anche le nazioni europee «ricche» hanno lo stesso trend demografico in calo.
I dati sulla natalità nudi e crudi
Per capire ciò di cui stiamo parlando, sono andata a prendere i dati di Eurostat, la banca statistica europea.
In Norvegia, nazione assai ricca per via delle risorse energetiche di cui dispone (petrolio e gas naturale) con il secondo PIL procapite nel mondo, nel 2022 si sono registrate 9,8 nascite su 1000 abitanti contro le 12 del 2012. In Lussemburgo, altra nazione ricca grazie al settore bancario che crea l’86% del PIL nazionale, si sono registrate 9,9 nascite contro le 11,3 di dieci anni prima. In Italia la decrescita è sicuramente più vistosa visto che siamo passati a 6,7 nascite per 1000 abitanti del 2022 rispetto alle 9,0 del 2012 e al 9,4 del 2022.
Il fenomeno riguarda anche quei paesi in cui il welfare è di gran lunga migliore del nostro, a testimonianza che non è avere il nido che può fare la differenza: la Francia, per esempio, si attesta a 10,6 nascite contro le 12,6 del 2012 e le 12,9 del 2002.
L’andamento della natalità in Grecia è molto simile a quello italiana: 7,3 nel 2022 contro le 9,1 del 2012.
La Germania è una delle poche nazioni in cui la natalità cresce, anche se di poco, attestandosi a 8,8 nascite nel 2022 rispetto alle 8,4 di dieci anni prima.
Insomma, tutta l’eurozona soffre di bassa natalità, a parte i paesi dell’Est.
Se andiamo poi a vedere i dati mondiali sulla natalità, anche qui c’è una sorpresa: anche la popolazione mondiale sta diminuendo con un drastico 3,39 nati per 1000 persone nel 2020 al 5,26 del 2000 (dati Data Commons).
La nazione con più nascite al mondo è il Niger con un tasso di natalità pari a 4,86/1.000 persone, seguito altri stati africani come Angola, Benin, Mali e Uganda.
La natalità cinese sta soffrendo ormai da quasi 4 anni un forte crollo che l’ha portata rapidamente al livello più basso degli ultimi 40 anni, pari a 8,52/1.000 abitanti, nonostante i grossi sforzi messi in campo da Pechino per incentivare le nascite.
Cosa dicono questi dati
I dati sopra esposti mi dicono che occorre intanto fare una netta distinzione tra Paesi avanzati e Paesi in via di sviluppo, dove in questi ultimi probabilmente è ancora fortissima la necessità di “braccia da lavoro” (il vecchio proletariato) e dove la vita rurale è sicuramente più estesa rispetto all’ultra urbanizzazione dei paesi sviluppati.
Detto questo, e analizzando l’andamento economico, mi chiedo sempre più se davvero abbiamo bisogno di «braccia» oppure al contrario abbiamo bisogno di «un certo tipo di immigrazione».
La domanda è del tutto logica e priva di ogni qualsivoglia connotazione politica (meglio sempre specificarlo!).
L’Italia è una nazione che ha visto continue trasformazioni della sua economia che spesso hanno creato disastri sulla base di scelte altrettanto disastrose.
Attualmente viviamo un momento di transizione che non esagero definire epocale, in cui ci accorgiamo ogni giorno quanto il nostro sistema-paese faccia fatica a rimanere incollato ad un «mondo veloce in continua evoluzione».
Abbiamo un arretratezza tecnologica spaventosa (analfabetismo informatico) soprattutto all’interno delle istituzioni pubbliche, le quali, per recuperare un gap produttivo e qualitativo, non fanno altro che riversare la loro cronica inefficienza sul povero cittadino che si trova costretto a risolvere con i propri soldi ciò che l’amministrazione pubblica non sa più dargli.
A tutto questo, si aggiungono appunto le problematiche esterne al nostro paese che si vede inondare di gente disperata che cerca rifugio e accoglienza e che, spesso e non certo per colpa loro, finisce nelle maglie della criminalità che li sfrutta persino da quando partono.
È proprio sull’immigrazione si sta compiendo di nuovo un errore drammatico, perché se da un lato è chiaro che la mancata crescita demografica propone uno scenario che non è esagerato considerare potenzialmente spaventoso (perché i Paesi stanno invecchiando sempre di più, per esempio in Italia gli over 65 rappresentano quasi un quarto della popolazione totale e che negli ultimi anni si è ampliato anche in Brasile, Messico e Thailandia), dall’altro ci troviamo davanti a cambiamenti radicali ed epocali in termini di lavoro e professioni.
In un libro che scatena in me una curiosità sfrenata dal titolo “Il futuro delle professioni. Come la tecnologia trasformerà il lavoro dei professionisti”, gli autori «predicono il declino delle professioni per come le conosciamo e descrive le persone e i sistemi che le sostituiranno. Nella società aumentata di Internet, gli “intermediari” della conoscenza, cioè figure quali medici, insegnanti, contabili, architetti, consulenti, avvocati e altri tipi di professionisti del Ventesimo secolo, dovranno trasformare il proprio modo di lavorare. Le tecnologie sempre più capaci metteranno a disposizione di tutti la “competenza pratica” dei migliori specialisti, a basso costo e senza interazioni faccia a faccia».
Quindi, quali saranno le necessità occupazionali e cosa serve a questa nazione in tema di rapporto tra la demografia e lo sviluppo economico?
Perché, vedete, le due cose non sono affatto separate.
Le future professioni e i posti vacanti
Pare a questo punto evidente che affrontare il problema migratorio «per necessità demografica» senza porci quella di «quali necessità abbiamo in termini occupazionali», non solo è riduttivo ma francamente anche molto stupido.
Soprattutto perché ogni giorno la nostra attenzione viene catturata da servizi in cui giornalisti e professori ci mettono in guardia su quante posizioni vacanti risultino nel mercato del lavoro. Si parla di qualcosa come 100mila professionisti all'anno che mancherebbero da qui fino al 2030.
E in un Paese con 2 milioni di disoccupati, dico io, non si trovano 100mila professionisti?
Il problema, dicono, sta nel fatto che servono dipendenti e figure formate, qualificate e con un certo grado di formazione per via dello mismatch, dello squilibrio drammatico, tra la domanda di lavoro e le competenze (insufficienti) di chi lo cerca.
Lo sanno bene tutti i boomer come me, ma in questo momento non voglio entrare sul merito. Diciamo semplicemente che noi poveri boomer non rientriamo più nelle strategie future. Punto.
Servono giovani, laureati, formati, competenti in professioni del futuro. Questo è quanto.
La manodopera che non serve
E allora cosa facciamo per risolvere il problema? Pensiamo ad minchium che servano «persone» e non «quali persone»?
Se il problema nostro è che invecchiamo e dobbiamo sostituire i lavoratori attuali con quelli futuri, importare una bassa manovalanza non farà altro che rimpolpare le fila di coloro che non potranno economicamente contribuire al PIL in alcun modo.
Se il “problema” dei sessantenni è quello di essere scarsamente formati e quindi non impiegabili, quale futuro potremmo garantire a giovani emigranti scarsamente formati, senza magari l’accesso alle scuole, con un gap linguistico o con professioni che andranno via via scomparendo? Che si inseriscono in un mercato fluido come quello futuro in cui le professioni saranno soggette a trasformazioni talmente repentine da non dar modo di reinserirsi nel mercato del lavoro nemmeno a persone altamente formate?
Per esempio, il World Economic Forum nel suo "Future of Jobs Report" del 2023 ha anticipato che l’introduzione dell’intelligenza artificiale cancellerà nei prossimi 5 anni il 2% di posti di lavoro a livello mondiale, una cosa come 160 milioni di posti. Bazzeccole!
Quali sono queste professioni che andranno a sparire? Il report ce li elenca:
Impiegati di Banca,
Contabili,
Impiegati dei servizi postali e al front office,
Impiegati Data Entry,
Cassieri e addetti alla biglietteria.
In realtà, le professioni a rischio in virtù dell’introduzione delle nuove tecnologie (informatiche e robotiche) sarebbero una cosa come 800, numero che viene citato in uno studio del Dipartimento di Economia e Management dell’università di Trento. In questo studio si mette nero su bianco una potenziale perdita di circa 7 milioni di posti di lavoro (SETTE, avete capito!) con tra cui, oltre a quelle citate prima, si aggiungono gli addetti alle consegne (mica pochi, eh!), il portierato, i commercianti e gli addetti all’assemblaggio.
Ah, nel mio piccolo, aggiungerei i traduttori, i fotografi e i videomaker, i grafici e tutta l’area del web.
Occorre quindi pensare subito a quali saranno le professioni del futuro e a come un lavoratore modero possa rimanere UTILE e UTILIZZABILE in un mondo in cui sembra che l’uomo non serva più!
Nelle mie visioni del futuro, quindi, c’è la sacrosanta preoccupazione che questo non sarà un paese per vecchi, ma nemmeno un paese per giovani, in particolare per quelli non istruiti.
E sappiamo bene che formare presuppone visione e programmazione, due cose davvero difficili da fare qui in Italia, che in trent’anni non si è accorta, nonostante tutte le lauree dei professoroni, che a furia di non formare medici, non ci sono medici!
Allora, perché non facciamo figli?
Mi pare chiaro che i fattori scatenanti non sono da ricercare solamente nei problemi di natura economica, che pure sono importanti, ma anche in altri ambiti che coinvolgono soprattutto una pessimistica visione del futuro.
Mi pare tremendamente illogico non pensare che delineando quadri in cui l’apporto umano sembra ormai superfluo, strillando emergenze di carattere epocale e dipingendo apocalittiche prospettive per il futuro, non ci si soffermi su cosa possano innescare in noi a livello umorale.
A parte me che risulto sempre un caso a parte, mi confronto ogni giorno con persone che hanno scientemente deciso di non mettere al mondo figli.
Questione di comodità? Non credo proprio.
Tra l’altro dobbiamo fare i conti con prospettive sempre più nere e i futurologi non contribuiscono certo a mitigare questa insicurezza.
Prendiamo la «nuova emergenza» dei cambiamenti climatici.
Nel 2020 un team internazionale di 17 scienziati di riconosciuta fama ha pubblicato uno Studio-Appello dove si evidenzia che, dopo decenni di inazione e di misure inefficaci su perdita di biodiversità, cambiamenti climatici e inquinamenti, l’umanità si sta avviando verso un “orribile futuro” che ha gravemente sottovalutato.
Nel 2024 uno studio intitolato “Characteristic processes of human evolution caused the Anthropocene and may obstruct its global solutions” (I processi caratteristici dell’evoluzione umana hanno causato l’Antropocene e potrebbero ostacolarne le soluzioni globali), realizzato dall’università del Maine, dal Colby College e dal Loránd Tudományegyetem e dal Center for the Conceptual Foundations of Science della Parmenides Foundation, ci dice in sostanza che: «Le caratteristiche centrali dell’evoluzione umana potrebbero impedire alla nostra specie di risolvere i problemi ambientali globali come il cambiamento climatico». Questo per via che «nel corso degli ultimi 100.000 anni, i gruppi umani hanno progressivamente utilizzato più tipi di risorse, con maggiore intensità, su scala maggiore e con maggiori impatti ambientali. Questi gruppi spesso si sono poi diffusi in nuovi ambienti con nuove risorse. (…) Il problema è che non abbiamo una società globale coordinata che possa implementare questi sistemi. Abbiamo solo gruppi sub-globali, che probabilmente non saranno sufficienti. (…) L’evoluzione culturale tra i gruppi tenderebbe ad esacerbare la competizione per le risorse e potrebbe portare a un conflitto diretto tra i gruppi e persino al deperimento umano globale. Questo significa che le sfide globali come il cambiamento climatico sono molto più difficili da risolvere di quanto ritenuto in precedenza. Non è solo la cosa più difficile che la nostra specie abbia mai fatto. Lo è in assoluto!».
NB: Antropocene è l'era dell'uomo (la nostra), quel periodo in cui gli esseri umani hanno un impatto enorme su tutto l'ecosistema terrestre.
E mettiamoci pure la fragilità dei giovani
Non solo abbiamo problemi legati al nostro futuro in termini di sopravvivenza, ma abbiamo anche una grossa fragilità emotiva che ci spinge inesorabilmente verso il punto di non ritorno.
Cito un testo trovato in rete che però delinea molto meglio di me ciò che sta succedendo. L’articolo è di Enrico Fabbro, Responsabile Marketing Stage & Placement Università Cattolica del Sacro Cuore Roma. «La dinamica dei giovani di oggi è un affascinante labirinto di preparazione avanzata e fragilità inaspettata. Mai come ora i giovani hanno avuto un accesso così ampio alla conoscenza e all'informazione, grazie alla rivoluzione tecnologica. Questa accessibilità ha catapultato le nuove generazioni in un mondo in cui la sapienza è alla portata di un clic, consentendo loro di essere più istruiti e consapevoli rispetto alle precedenti generazioni. (…) Tuttavia, dietro questa facciata di preparazione, si nasconde un'altra realtà: la fragilità emotiva. I giovani di oggi sembrano affrontare un carico emotivo più pesante rispetto alle generazioni precedenti. Stress, ansia, e un senso di pressione costante sembrano affliggere molti di loro. Numerosi fattori contribuiscono a questa fragilità. La dipendenza crescente dalla tecnologia e dai social media, sebbene offra connessione e informazioni, può anche isolare e creare un'illusione di perfezione irraggiungibile. Il confronto costante con vite idealizzate online può minare l'autostima e generare una sensazione di inadeguatezza».
In conclusione
Ma in uno scenario come questo perché mai dovremo farei figli, dico io!
I contesti futuri presi in esame in questo articolo, e qui ne ho citati solo alcuni, dipingono un quadro veramente sconsolato e questo ci deve far pensare che forse è arrivato il momento di tirare i remi in barca, fermarci a riflettere, non autoriprodurci solo perché «lo abbiamo sempre fatto» e capire che la riduzione demografica è forse fisiologica e rimane una risposta consona rispetto allo stato attuale.
È brutto dirlo? Probabilmente sì e ci saranno persone che non lo capiranno affatto.
Voi non lo potete vedere, ma sto facendo spallucce.
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