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WELFARE AZIENDALE. UN VANTAGGIO PER CHI?

Da parecchio tempo si sente parlare di Welfare aziendale, ma nell’ultimo periodo l’entusiasmo verso questa visione del “benessere del lavoratore” sta dilagando.

Anche nell’ultima legge di bilancio, trova un posticino una norma (compresa una circolare dell’agenzia delle entrate che ne delinea le istruzioni) dedicata a questa “pratica virtuosa”.

Ma, come è mia abitudine, tendo ormai a diffidare quando le notizie vengono strillate come i pescivendoli al mercato.


Welfare aziendale

Cos’è esattamente il welfare aziendale e cosa porta in dote al lavoratore? Lo scopo (dicono) di questa meraviglia è quella di erogare «un insieme di benefit e prestazioni non monetarie a favore dei dipendenti con l’obiettivo di migliorarne la qualità della vita e il benessere loro e dei loro familiari. In questo modo “si incrementa il potere d’acquisto delle famiglie senza aumentare il loro reddito imponibile e il peso dell’erario sul datore di lavoro”».

Detto questo, sono diverse le aree di intervento: benessere e salute fisica e mentale (come servizi sanitari di vario genere, accompagnandoli spesso a servizi di sostegno psicologico online per dipendenti e familiari); conciliazione famiglia e lavoro (permessi e congedi extra pagati dall’azienda, fondo-ore negoziato, servizi di baby-sitter o asili e nidi, agevolazioni per l’acquisto di device digitali e servizi di assistenza ai famigliari anziani); mobilità (servizi di trasporto per i lavoratori per supplire alle carenze dei trasporti pubblici e alla loro inagibilità per motivi di sicurezza in conseguenza della pandemia); mensa diffusa (i famosi buoni pasto).

A questo punto, sono andata a spulciare un po’ in rete e sono moltissimi gli articoli che promuovono il welfare aziendale.

Ma va?, dico io!

Quindi cosa spinge il mondo delle imprese in questa direzione?

Pura filantropia?

Se vivessimo in mondo non «a culo in su», sarei la prima a rallegrarmene. Ma purtroppo non è così e lo sappiamo.

Cosa si trova dietro a questa meraviglia del progresso lavorativo ce lo svelano due articoli.

Il primo è, manco a dirlo, del Sole24Ore che nell’articolo del 31 maggio 2023 a cura di Chiara Bassi, Country Manager Coverflex (suvvia, un po’ di pubblicità non guasta!) ci dice che «Le chiavi del funzionamento di un piano di welfare sono la possibilità di scelta, la capacità di spesa e la facilità di utilizzo. L’individuo (cioè il lavoratore, ndr) assume una centralità come consumatore, prima ancora che come dipendente. È solo quando i servizi e i prodotti acquistabili sono quelli che appartengono alla vita e alle abitudini di consumo che il valore aggiunto diventa percepito. Smettono di essere delle spese “aggiuntive” – che senza il budget di welfare non sarebbero probabilmente prese in considerazione – ma diventano dei servizi a reale valore aggiunto per il benessere e la crescita della persona e della sua famiglia, pagati con un credito fiscalmente conveniente concesso dall’azienda».

La parte che mi interessa e sulla quale vorrei soffermarmi è proprio quell’idea che il lavoratore diventi consumatore di un servizio che «se non avesse avuto denaro ne avrebbe fatto a meno!»

Non male, cara Chiara!

Perché, se mi permetti, l’individuo non ha così bisogno di andare in palestra, può tranquillamente passeggiare con la sua famiglia al parco il sabato o la domenica. Può prendere su la macchina e andare a fare un giretto in montagna o nei bellissimi borghi italiani, quelli meno conosciuti o più caratteristici. Può andare al mare e gustarsi una frittura di pesce che male non fa. Oppure può inforcare la bicicletta e farsi tutta la Martesana seguendo le piste ciclabili.

Al lavoratore basterebbe avere un orario d’uscita che gli permetta di poter programmare la sua vita, e non essere costretto alla flessibilità oraria rimanendo a disposizione dell’azienda senza avere più una dimensione privata (basta chiedere a chi lavora in forma autonoma o in smart working).

Qui sta il bello, di quest’idea: farti percepire come un vantaggio il fatto che il tuo datore di lavoro ti paghi lo psicologo dopo che ti ha fatto uscire di testa con il mobbing.

Wow, non c’è che dire, un vero abracadabra!

La cosa ancora più interessante ce lo rivela uno studio effettuato da McKinsey & Company che

ha coinvolto 1.300 lavoratori dipendenti, equamente ripartiti fra PMI e grandi aziende. In questo studio si è tentato di «dimostrare come sia possibile per le imprese dare un contributo alla domanda di welfare, rendendo l’intervento vantaggioso anche sotto il profilo economico. Sposando dunque la tesi secondo cui per l’impresa offrire servizi di welfare non è mera filantropia, ma piuttosto una leva strategica di vantaggio competitivo che permette di migliorare il benessere organizzativo e le performance economiche».

Ecco qui servito su un piatto d’argento il perché si punti sul welfare: perché è vantaggioso per le aziende.

Ma non solo: «L’assunto di base è che il welfare aziendale sia un bisogno fortemente sentito dai lavoratori che riconoscono un valore economico intrinseco ai servizi offerti (…) superiore al costo effettivo di produzione/attivazione di tali servizi e politiche».

In soldoni: il lavoratore ha talmente «bisogno» di questi servizi da percepire un valore superiore al costo effettivo sostenuto dall’impresa che arriva addirittura ad un 70% in più. Cioè il datore spende 100 e il lavoratore ne percepisce 170.

A questo punto, lasciatemelo dire, Silvan è un vero dilettante ed ecco che la supercazzola è servita. E ne siete pure contenti!

Quello che non mi è ancora perfettamente chiaro è qual è il vantaggio del lavoratore.

Perché, se da un lato lui può aver bisogno di qualcosa (anche se in questo modo si posso «costruire» dei bisogni a comando), dall’altro non si sta facendo i conti con la perdita di valore dello stipendio.

Questa cosa mi era successa personalmente quando ho scoperto che il mio ultimo datore di lavoro mi aveva concesso un superminimo “assorbibile” (chi non sa cos’è lo invito ad andarselo a vedere!). Questa genialata mi aveva esposto ad un’erosione costante dello stipendio allorché se per esempio gli scatti di anzianità dovevano aumentare lo stipendio, venivano assorbiti dal superminimo.

Cosa succede allo stipendio se per dieci anni si ha la palestra, ma non un passaggio di categoria o un aumento per merito?

Diciamocela tutta, qui si sta perseguendo continuamente la strada dell’impoverimento salariale, costruendo bisogni inesistenti per impoverire il lavoro e aumentare i profitti delle aziende.

Rammento a tutti che negli ultimi 30 anni l’inflazione cumulata ha infatti eroso il 50% del potere d’acquisto e quindi è bene tenerne conto in prospettiva salariale e pensionistica. Senza crescita retributiva e rivalutazione delle pensioni la perdita del potere d’acquisto non permetterà di mantenere lo stesso tenore di vita.

Se volete capire cos’è la perdita del valore del denaro, vi invito a divertirvi con questo link: https://www.infodata.ilsole24ore.com/2016/05/17/calcola-potere-dacquisto-lire-ed-euro-dal-1860-2015/

Qualche tempo fa, parlando con i miei, nei meandri della nostra cantina siamo riusciti a recuperare delle informazioni piuttosto interessanti che fanno capire come siano stati gestiti gli adeguanti salariali negli ultimi 40 anni.

Tutti ci ricordiamo che agli inizi degli anni 80 l’inflazione era alle stelle. Se non mi ricordo male, nel 1980 avevamo un’inflazione del 21,2% ma gli adeguamenti tra il 1980 e il 1990 dei salari avevano di fatto far aumentare lo stipendio dei miei genitori di ben 4 volte (grazie alla scala mobile che aveva salvato gli stipendi), mentre negli ultimi vent’anni la loro pensione è aumentata solo del 30%  dal 2002 ad oggi. Per capirci: nel decennio 1980/1990 da 500 a 2 milioni di lire, dal 2002 al 2022 dal 1300  a 1700 euro in 20 anni, un aumento di 200 euro/mese ogni 10 anni, 20 euro/mese all’anno.

E allora quanto di fatto abbiamo perso?

Sempre il Sole24ore in un report del 2022 certifica che «Una delle maggiori criticità che affliggono l’economia italiana è il ridotto potere d’acquisto del denaro. Questo è dovuto non solo all’inflazione (12,8% su base annua, come riportato dall’Istat), che peraltro è comune a tutti i Paesi occidentali, bensì soprattutto ai salari praticamente bloccati da oltre 30 anni. Rispetto all’anno 1990, l’Italia è infatti l’unico Paese UE con salari addirittura decrescenti (-2,9%), a fronte di incrementi corposi nelle altre economie mature».

Inoltre, i mancati aumenti salariali si rifletteranno anche sull’assegno pensionistico peraltro già ampiamente compromesso dal passaggio al contributivo rispetto al retributivo. E giusto per capire quanta differenza c’è tra il retributivo e il contributivo, prendiamo come esempio un lavoratore che accede alla pensione di vecchiaia che ha più di 40 anni di carriera e un reddito medio annuo di 30.000€. Con il regime retributivo questo andrebbe in pensione con un assegno pari all’80% del reddito, quindi, 24.000€, mentre si stima che se ci andasse con il solo contributivo, il trattamento previdenziale sarebbe pari al 54% del trattamento lordo, quindi circa 16.200 euro l’anno.

Capito?

Per concludere, mi pare chiaro che occorre agire sull’aumento salariale piuttosto che su finti benefit che non hanno alcun scopo se non nell’illudere il lavoratore di ottenere qualcosa, ma che di fatto erode sempre più il suo potere d’acquisto.

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